Perché Oscar è l'icona femminista definitiva



Sgombriamo il campo dall'equivoco: l'ambiguità che circonda Oscar François de Jarjayes non è la sua identità, ma l'arma che Riyoko Ikeda ha usato per protestare contro gli schemi sociali della sua epoca

- gli anni '70- in Giappone. Poi, poichè le donne ovunque erano e sono oggetto di discrimanzione lei è diventata l'epitome di un modo di essere. Già ma quale? 

Icona gay, eroina yuri, personaggio “queer ante litteram”.

Certo, il contesto è intriso di suggestioni yuri: sguardi obliqui, l'infatuazione di Rosalie che la scambia per un uomo, le accuse infamanti di Jeanne de La Motte che tirano in ballo orge lesbiche con la stessa Maria Antonietta...

Ma questo rumore di fondo non definisce Oscar; definisce il mondo che la osserva.

Il punto cruciale è la percezione esterna contro la verità interna.

Rosalie vede un salvatore maschile, gli aristocratici vedono un Comandante “strano ma affascinante”.

È il mondo che la circonda a costruire su Oscar fantasie saffiche; non Oscar a viverle. Dentro il racconto, infatti, la sua traiettoria affettiva è chiarissima: la passione infelice per Fersen, poi l’amore pieno, consapevole e reciproco per André. Oscar sa perfettamente chi ama e cosa desidera, e non c’è esitazione in questo.

 Che cosa diventa allora, con il tempo, Oscar per il pubblico? Una delle prime figure a cui molte persone LGBT+ si sono affezionate, certo: una donna in divisa, fuori ruolo, che sfida le regole e non si lascia incasellare, è inevitabilmente magnetica per chi vive sulla propria pelle il tema della differenza. Ma questa è la lettura successiva, quella della ricezione. Nelle intenzioni dell’autrice, Oscar è soprattutto un grido femminista: una donna che rifiuta il destino di bambola da salotto, entra in un territorio maschile, si assume responsabilità politiche, paga in prima persona il prezzo delle proprie scelte.

L’ambiguità di genere, gli ammiccamenti saffici, il travestimento non sono etichette identitarie appiccicate al personaggio: sono strumenti per spaccare in due il modello femminile tradizionale e mostrarne le crepe. Oscar non è “la ragazza che ama le ragazze”; è la donna che costringe tutti – lettori, personaggi, società fittizia e reale – a interrogarsi su cosa voglia dire essere donna, avere un corpo femminile e non accettare il posto assegnato. 


In questo senso, più che icona gay, Oscar resta – allora come oggi – un’icona radicalmente, fieramente femminista.

Emblematica, in questo senso, è la scena del ballo nel manga, organizzato in suo “onore” per scegliere il pretendente da sposare. Lì Oscar spinge il gioco dell’ambiguità fino all’eccesso: invece di presentarsi in abito da sera, ma in uniforme: balla con le dame, flirta, arriva persino a sfiorare le labbra di una di loro. Che cosa sta facendo davvero? 

Non sta “rivelando” una supposta omosessualità: sta restituendo al mittente la manipolazione subita per tutta la vita. Volevate un uomo? Avete costruito un soldato? Bene, eccovi un ufficiale talmente affascinante da far perdere la testa alle vostre figlie. Volete che diventi, d’improvviso, la brava signorina da maritare? Allora io porto il gioco alle estreme conseguenze, mostro quanto sia ridicolo il vostro copione, mi servo dell’effetto magnetico che ho su donne e uomini… e poi me ne vado, ridendo di gusto. 

È una performance di ribellione, non una confessione d’identità. È il modo in cui Oscar ribalta il tavolo e dice, una volta per tutte: 

"Non sono il vostro burattino".

Ed è proprio in gesti come questo che, al di là di ogni etichetta, si vede la sua natura più autentica: non icona gay, ma figura-simbolo di una femminilità che rifiuta di farsi definire da altri e rivendica il diritto di scegliere, fino all’ultimo, il proprio destino.

E scusate se è poco... 

Forse è questo, alla fine, il paradosso più grande: noi abbiamo un bisogno quasi disperato di etichettare tutto – orientamenti, identità, ruoli – mentre Oscar esiste proprio per incrinare le etichette, non per aggiungerne una nuova al catalogo.

Se potesse parlare al nostro tempo, credo ci guarderebbe con un mezzo sorriso stanco e direbbe qualcosa come: 

«Non perdete tempo a chiedervi cosa sono. Guardate cosa scelgo, cosa faccio, cosa rischio.»

Perché Oscar non è una definizione da vocabolario, è un movimento: il gesto di chi rifiuta la gabbia, qualunque sia il nome scritto sulla targhetta. E forse il modo più fedele di onorarla non è decidere “cosa” sia, ma chiederci ogni giorno che cosa siamo disposti a mettere in gioco, noi, per "essere davvero liberi di essere".


みなさん、ありがとう。物語はまだ終わらない——本の中でつづく。

Grazie a tutti. La storia non è ancora finita — continua nel libro.

Perché amare Lady Oscar

MS


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