La ragazza che non voleva obbedire
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Giappone, fine anni Sessanta. Una ragazza minuta passeggia per le strade di Tokyo. A vent'anni. Non sa cosa farà "da grande". Ha dovuto metter da parte il suo primo garnde sogno d'infanzia ma un nuovo amore le scalda il cuore. E' una ragazza dall'intelligenza affilata e una fame insaziabile di capire il mondo, ma soprattutto di ribellarsi a quello che la circondava. Il suo nome era Riyoko Ikeda. E il suo primo problema era proprio questo: essere una ragazza. In un contesto fortemente patriarcale, non dissimile da quello che vivevano le nostre nonne in Italia, il desiderio di una figlia di studiare all'università poteva suonare come un'assurdità.
Il padre di Riyoko, un uomo all'antica, non capiva. Che bisogno aveva la sua primogenita di laurearsi? Il suo destino era segnato: prima o poi si sarebbe sposata e il suo "lavoro" sarebbe stato quello di fare la casalinga. Il nome datole - bambina buona, comprensiva- rispecchiava ciò che il padre, la società, la cultura si aspettava da lei.
Ma Riyoko non era una ragazza destinata a tacere o ad accettare. Insistette, lottò, finché il padre non cedette, ma a modo suo. Le lanciò un guanto di sfida, convinto di piegarne la volontà: le avrebbe pagato solo il primo anno alla Tokyo University of Education (oggi Università di Tsukuba). Dal secondo in poi, avrebbe dovuto mantenersi da sola.
Era un modo per dirle: "Vedi? Da sola, in quanto donna, non ce la farai". Ma si sbagliava di grosso.
Come detto, il primo amore di Riyoko era stata la musica. Sognava di suonare la tromba e il pianoforte. Tuttavia, con una lucidità disarmante, si rese conto che il suo talento non era sufficiente per eccellere. Fu così che, quasi per ripiego, si iscrisse alla facoltà di Filosofia.
Ah, la filosofia... Dante Alighieri la considerava la dottrina sublime, l'unica in grado di far superare all'eseere umano vizi e debolezze. L'unica che poteva condurre all'elevazione intellettuale e spirituale.
Ecco per Riyoko fu la stesa cosa, ovviametne eliminando le propaggini cristiane. Così, quella che sembrava un ripiego si trasformò nel suo più grande asso nella manica. Negli atenei giapponesi di fine anni '60, le facoltà di Lettere e Filosofia erano l'epicentro di un terremoto ideologico. Erano i luoghi dove si discuteva, si criticava il potere e si immaginava un mondo diverso.
La filosofia fornì a Riyoko un arsenale di strumenti critici per analizzare la storia, smascherare le ingiustizie sociali e comprendere le dinamiche del potere. Questa preparazione, unita al suo amore per la Rivoluzione Francese, nato sui banchi del liceo leggendo Stefan Zweig, creò una miscela esplosiva che avrebbe definito la sua arte.
Non tutte rose e fiori...
L'università per Riyoko non fu una torre d'avorio ma una palestra di vita e di lotta. Si tuffò a capofitto nel clima rovente di quegli anni, influenzata dalla Nuova Sinistra Giapponese e aderendo alla Lega Giovanile Democratica, legata al Partito Comunista.
Partecipò attivamente ai movimenti studenteschi, schierandosi in un gruppo "anti-violenza".
Sentiva di voler dare il proprio contributo per la lotta in nome dei diritti di tutti, specie delle donne. così emarginate dalla culutra nipponica.
Queste esperienze non furono un contorno, ma il piatto principale della sua formazione. Vivere l'attivismo in prima persona le permise di capire che la storia è spinta dal conflitto di classe e dalla sete di giustizia dei popoli. Quando, anni dopo, disegnerà le vicende della Rivoluzione Francese o Russa, non racconterà una favola, ma metterà in scena il dramma vero, analizzato con la lucidità di chi quelle dinamiche le aveva studiate e vissute.
Riyoko la femminista
Come disse Olympe de Gouges, Uomo, sei capace di esser giusto?
La risposta Ryoko la conosceva e per questo negli anni febbrili della sua formazione con tornò mai sui suoi passi, non rinuciò agli studi ma si mantenne come meglio potè.
E' a questo punto che inizia a disegnare manga... non aveva mai pensato a quella attività in modo deifnitovo ma si rese conto che con dedizione e studio poteva fondere una vitalità nuove alle idee che la animavano. Forse ecco la leva per sollevare il mondo dell'ingiustizia...
Con un certo rammarico, la giovane Riyoko si rese conto di una bruciante contraddizione: anche nei movimenti più radicali e progressisti, a tenere il megafono in mano erano quasi sempre gli uomini. La rivoluzione parlava di uguaglianza, ma sembrava dimenticare le donne. Era un mondo di leader maschili, le voci femminili relegate in secondo piano.
È da questa frustrazione, da questo "soffitto di cristallo" vissuto in prima persona, che Ikeda trovò la sua vera vocazione. Invece di lottare per uno spazio in un gioco definito da altri, decise di creare un mondo nuovo. I suoi studi di filosofia e critica sociale le diedero le armi per trasformare la rabbia in un'espressione artistica potentissima.
Il risultato fu un personaggio destinato a cambiare per sempre non solo i manga, ma l'immaginario di intere generazioni: Oscar François de Jarjayes.
L'eroina de Le Rose di Versailles è l'incarnazione della ribellione di Riyoko: una donna che rifiuta il ruolo che la società le ha assegnato, che rivendica il diritto di scegliere chi essere e che dimostra come intelligenza, coraggio e leadership non abbiano genere.
Oscar non è semplicemente una donna vestita da uomo;
è un manifesto vivente contro il binarismo di genere - non trans, non gay- ma una donna che vuole essere libera di scegliere e amare. Un privilegio che ieri come oggi spesso ha un prezzo altissimo.
Oscar è la prova che coraggio, onore e leadership non hanno sesso.
Ryioko Ikeda, riconosciuta come la "voce di un nuovo femminismo", usò la sua matita per analizzare il concetto di autodeterminazione e sfidare i ruoli predefiniti.
Siamo tutti esseri umani?
Riyoko se lo chiese. Ma non si tratta di un semplice esercizio intellettuale; è una questione etica le cui risposte hanno conseguenze reali e spesso brutali. Il modo in cui una cultura ha storicamente trattato le donne non è una nota a piè di pagina della storia, ma la prova decisiva del suo fallimento nel dare una risposta onesta e universale a quella domanda.
L'Ottocento: la Scienza al servizio del pregiudizio
Per gran parte della storia del pensiero occidentale, la definizione di "essere umano" è stata costruita su un modello parziale e auto-interessato: quello del maschio. La razionalità, la capacità di governare e la forza morale non sono state presentate come qualità umane universali, ma come virtù eminentemente maschili. Di conseguenza, la donna è stata definita non in base a ciò che era, ma in base a ciò che non era: non un uomo, e quindi un essere umano incompleto, secondario, la cui funzione era relativa all'uomo stesso.
Questo non è un difetto solo di pensatori antichi come Aristotele, che considerava la donna un "maschio imperfetto", ma ha attraversato i secoli, radicandosi profondamente nella mentalità moderna.
E nel pancia della Francia assetata di giustizia, Jean-Jacques Rousseau, nel suo trattato sull'educazione (Emilio) sosteneva che l'educazione di una ragazza dovesse essere finalizzata unicamente a renderla una buona moglie e madre, capace di piacere e compiacere sessualmente il suo uomo.
Per secoli - ma lo è ancora- la donna è sentita come "strumentno in funizone" del maschio.
L'Ottocento, il secolo del progresso e della ragione scientifica, è stato forse il periodo in cui questo pregiudizio si è manifestato in modo più eclatante e insidioso. La filosofia lasciò il posto a una pseudo-scienza determinata a "provare" l'inferiorità femminile con dati apparentemente oggettivi.
La Craniologia e il "Cervello Piccolo": scienziati come Paul Broca, un famoso antropologo francese, dedicarono studi a misurare le dimensioni dei crani maschili e femminili. Poiché in media il cervello femminile è leggermente più piccolo di quello maschile (in proporzione a un corpo mediamente più piccolo), conclusero che le donne fossero intellettualmente inferiori. Non considerarono minimamente la correlazione con la massa corporea; usarono un dato grezzo per giustificare l'esclusione delle donne dall'istruzione superiore e dalle professioni intellettuali.
L'Isteria e la "Malattia" dell'utero: la medicina ottocentesca era ossessionata dall'utero, considerato la causa di quasi ogni disturbo femminile, dall'ansia alla ribellione. L'isteria divenne una diagnosi-contenitore per qualsiasi donna che non si conformasse al ruolo di moglie e madre docile. Intellettuali come Cesare Lombroso in Italia arrivarono a teorizzare che la "donna criminale" e la donna di genio fossero deviazioni patologiche dalla norma, quasi mostruosità biologiche.
L'Esclusione dalla Sfera Pubblica: il filosofo Auguste Comte, padre del Positivismo, pur venerando la donna come cuore morale della famiglia, sosteneva che la sua natura emotiva e irrazionale la rendesse totalmente inadatta alla politica e al governo. Questa idea era così radicata che le battaglie delle suffragette per il diritto di voto venivano dipinte non come una richiesta di giustizia, ma come un'assurda e ridicola aberrazione contro natura.
Tali teorie grottesche rivelano il vero problema. La domanda "cosa ci definisce umani?" non può avere come risposta un elenco di qualità o funzioni, perché ci sarà sempre qualcuno che ne possiede di più o di meno, creando una gerarchia.
La filosofia più matura, da Kant a John Stuart Mill fino a Simone de Beauvoir, ha capito che l'unica risposta possibile è un'altra. Non siamo definiti da ciò che facciamo, ma da ciò che siamo.
Ciò che ci definisce umani è il possesso di una dignità intrinseca e inviolabile. Questa dignità non dipende dal sesso, dall'intelligenza, dalla forza o da qualsiasi altra caratteristica, ma è un valore assoluto che appartiene a ogni individuo. Da questa dignità discende un principio non negoziabile: l'uguaglianza fondamentale di tutti gli esseri umani.
La storia della discriminazione, quindi, è la storia di un continuo tradimento di questa idea. Ogni volta che si è negato un diritto, limitato un'opportunità o giustificato un abuso sulla base del sesso, si è implicitamente affermato che quella persona era, in fondo, "meno umana".
RIYOKO E LE SUE EROINE
Oscar, Maria Antonietta, Jeanne de La Motte, Claudine de Montesse, Julius de la Finestra di Orfeo e tutte le altre sono il prisma della femminilità. Ciascuna a suo modo è se stessa. E vanno tutte bene perchè ciasucno è libero di essere ciò che è (senza uccidere o avvelanere, vero Jeanne ?)
Le meravilgiose storie diRiyoko Ikeda devono essere una cartina di tornasole, un modo per imparare a "performare il genere" in modi nuovi, per immaginare e conquistare finalmente il diritto di essere protagoniste della propria vita.
Un abbraccio
MS


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